Palazzo Bonaparte è un edificio romano situato all’estremità meridionale di Via del Corso reso inconfondibile dal suo bussolotto, il balconcino angolare protetto da una struttura in legno a persiane che permetteva alla sua inquilina più celebre, Maria Letizia Ramolino, di osservare l’andirivieni di Piazza Venezia al riparo da sguardi indiscreti.
Costruito su progetto dell’architetto Giovanni Antonio De Rossi nel corso di vent’anni nella seconda metà del Seicento, era stato acquistato dalla madre di Napoleone nel 1818; la nobildonna ne farà la sua dimora fino alla morte, avvenuta nel 1836. Ancora oggi la scritta BONAPARTE campeggia dalla sommità dell’altana, ben visibile dai punti panoramici del centro storico capitolino.


Nel 1972 Palazzo Bonaparte diviene di proprietà di INA Assitalia; dal 2013, per effetto del nuovo assetto societario, entra a far parte del Gruppo Generali.
A partire dal 2017 il Palazzo viene sottoposto a un articolato intervento di restauro e valorizzazione che si conclude nel 2019 con l’apertura al pubblico come spazio Generali Valore Cultura; l’inaugurazione coincide con una fortunata mostra sugli Impressionisti Segreti.

Quella del marzo 2022 è quindi una riapertura, una vera e propria ripartenza dopo la pandemia. A differenza di altre istituzioni culturali che hanno affrontato gli ultimi due anni alternando periodi di fermo a riprese dell’attività, per Palazzo Bonaparte si è trattato di una chiusura ininterrotta che ha avuto termine questo mese con l’inaugurazione di due importanti mostre, a distanza di una settimana una dall’altra.

Bill Viola – Icons of light, curata da Kira Perov, ha aperto al pubblico il 5 marzo e si potrà visitare fino al 26 giugno. Jago – The Exhibition, a cura di Maria Teresa Benedetti, la segue di una settimana esatta e si chiuderà il 3 luglio prossimo.


Entrambe sono prodotte da Arthemisia, partner storico di Generali Valore Cultura; Icons of light è realizzata in collaborazione col Bill Viola Studio; le mostre hanno in comune il nutrito gruppo di lavoro che si è occupato del progetto di allestimento e di quello illuminotecnico, del progetto grafico e dell’immagine coordinata, degli apparati tecnici, del programma di didattica e di visite guidate, oltre che della promozione e della comunicazione.

Non credo che questo basti a immaginare una intenzione esplicita di mettere a sistema le due esposizioni: si tratta certamente di mostre indipendenti, oltre che radicalmente differenti; quella di Bill Viola è la terza più grande a lui dedicata a tenersi in Italia, dopo quella al Palazzo delle Esposizioni nel 2008 e quella a Palazzo Strozzi del 2017; quella di Jago è invece la prima in assoluto a raccogliere il corpus del suo lavoro e non una selezione parziale di opere.

Non sono mostre pensate per essere due facce diverse di una stessa medaglia, eppure in un certo modo finiscono per esserlo ugualmente. Esiste infatti tutta una serie di riferimenti sottili, alcuni persino involontari, che costruisce una rete di rimandi dall’una all’altra, a volte per affinità, altre volte per contrasto: è sulla base di questi che voglio provare a raccontarle.


Bill Viola (New York, 1951) non è soltanto un artista affermato; è, a pieno titolo – e da lungo tempo – parte imprescindibile della storia dell’arte contemporanea; un pioniere il cui nome è probabilmente il primo a venire in mente quando si parla di video arte; un maestro.

Jago, anzi JAGO (pseudonimo di Jacopo Cardillo, Frosinone, 1987) è uno scultore raffinato – qualcuno aggiungerebbe giovane – che ha saputo interpretare il presente intrecciando la propria attività artistica alla presenza sui social media, utilizzando entrambi come mezzi di espressione e comunicazione.

Bill Viola e Jago sono due innovatori profondamente differenti.
Intimo, silenzioso, quasi ascetico il primo, che spesso lascia che siano gli altri a parlare del suo lavoro: per la mostra di Roma, alla cui inaugurazione non ha potuto partecipare in presenza per la pandemia, il video messaggio di saluto è stato affidato a Kira Perov: moglie, executive director dello studio, curatrice della mostra, in una parola, guardian angel.

Social nel senso più letterale del termine è invece Jago: sempre disponibile con tutti, spesso presente nelle sale in cui sono ospitate le sue opere; nella mostra romana lo vedremo di nuovo al lavoro – come in un Truman Show consapevole – per realizzare il modello definitivo della sua prossima scultura – una personale rilettura del David – della quale ha già dato un’anticipazione documentando in video l’arrivo del bozzetto – sue proprie mani – a Palazzo Bonaparte.

Due fenomeni, ma anche due personalità per le quali il rapporto con l’arte classica è fondamentale, dichiarato e ben leggibile.

Due sensibilità attente ai temi del dolore, della sofferenza e della morte, interpretati in chiave personale o universale.


Si tratta anche di due mostre che affrontano i temi del tempo e dello spazio in modi differenti. La selezione di Bill Viola vuole introdurre il visitatore ai suoi quarant’anni di produzione artistica partendo da The Reflecting Pool (1977-79) – opera chiave nella sua carriera – per concludersi coi quattro Martyrs (Earth, Air, Fire, Water) presentati per la prima volta alla St Paul’s Cathedral di Londra nel 2014.

Il catalogo conta dieci video installazioni, ma più di una si compone di schermi multipli portando il totale delle opere a 15; tutte insieme si distribuiscono con equilibrio nelle sale dell’intero piano nobile del Palazzo, trasformato per questa occasione in uno spazio buio e immersivo. Al visitatore occorrerà un po’ di tempo per abituare l’occhio alla scarsa luminosità degli ambienti, ma ancor di più occorrerà molto tempo per potersi relazionare con le diverse opere.

Se lo spazio di Bill Viola è scuro al punto da rendere quasi evanescente la presenza della copia in gesso del monumentale Napoleone Bonaparte come Marte Pacificatore di Canova nell’atrio di ingresso, il suo tempo è infatti sospeso e dilatato.


L’uso caratteristico dello slow motion – vero e proprio linguaggio – incide infatti sulla durata delle opere, che è rilevante per tutte quelle in mostra; le proiezioni più brevi durano 7 minuti, quelle più lunghe superano la mezz’ora; i 45 secondi di girato di The Greeting (1995) si dilatano fino a diventare 10:22 minuti; le presentazioni avvengono a ciclo continuo, ma nel caso del celebre Ascension (2000) l’artista ha richiesto una pausa di tempo ben definita tra la fine e l’inizio dell’opera: non è una mostra che è possibile visitare velocemente, ma una che richiede il nostro tempo.


L’allestimento è essenziale e si fa carico con successo del compito non semplice di nascondere temporaneamente alla vista – quasi neutralizzare – il ricco apparato decorativo del piano nobile del Palazzo; questo riaffiora solo per brani, in una particolare sala o in un andito inaspettato, ma per ottenere l’effetto voluto non è sufficiente abbassare la luce d’ambiente: occorre lavorare su tutti quegli aspetti che potrebbero distrarre il visitatore e rinunciare ad alcuni degli elementi più caratteristici dell’edificio, facendo scomparire il mignano di Maria Letizia Ramolino o la pavimentazione sopraelevata in vetro extra chiaro progettata durante il restauro per proteggere le pavimentazioni antiche, che resta visibile, priva di illuminazione, solo in una delle sale.

I pannelli illustrativi sono perfettamente calibrati nella lunghezza, efficaci nei contenuti e ben leggibili nonostante la generale penombra; insieme alla presenza di sedute in quasi tutti gli ambienti, aiutano il visitatore a trovare il proprio tempo in questo percorso esperienziale.


Un piano più sopra, troviamo invece uno spazio caratterizzato dalla luce. Il bianco è il colore dominante in tutte le sculture di Jago, e nelle due sale che ospitano il Figlio Velato (2019) e la Pietà (2021) la luce del sole penetra prepotente dalle grandi finestre aperte sul grande vuoto di Piazza Venezia. Gli edifici, avvicinati come in un’illusione ottica, sembrano voler invadere gli ambienti della mostra approfittando della totale assenza di filtri o schermature. In alcune ore del giorno potreste trovare i raggi solari battere direttamente sulle opere, esposte come se si trovassero all’aria aperta.


La presenza dell’immagine della città che entra nelle sale è quasi ingombrante, ma appare chiaro come la scelta non sia casuale; lo stesso Jago ha suggerito, scherzando, di visitare la mostra anche se non si è interessati al suo lavoro, perché la vista merita.
Mi sento di spingermi un po’ oltre e proporre, di converso, di tornare a vederla quando è buio, perché l’illuminazione notturna e la sospensione di quel legame con l’esterno così forte la rendono quasi un’altra esperienza.

JAGO. The Exhibition. Immagine dell’allestimento. Habemus Hominem (2009 / 2016), Apparato Circolatorio (2017)


Anche Jago – The Exhibition occupa un piano di Palazzo Bonaparte per la sua intera superficie. Gli spazi sono già in partenza quasi totalmente privi di decorazioni, con poche eccezioni – i soffitti in legno, le mostre delle porte che sembrano fatte apposta per richiamare la pietra delle sculture – e l’allestimento diviene minimale. Il peso notevole delle due opere di maggiore dimensione ha richiesto la progettazione di una sottostruttura temporanea per distribuire il carico sull’intera superficie del solaio: la soluzione è risolta in modo brillante, col pavimento che si solleva a formare una rampa che sembra volerci proiettare all’esterno, nella Piazza.


Nelle sale che non affacciano direttamente su Piazza Venezia la luce naturale è più attenuata e l’illuminazione artificiale interagisce con le opere anche quando è giorno; in alcuni casi le finestre vengono intenzionalmente oscurate per permettere la proiezione di video direttamente sul soffitto; la Venere (2018) è esposta in un ambiente dalle pareti completamente rivestite di specchi che ne moltiplicano l’immagine all’infinito, una soluzione che i progettisti avevano utilizzato per la Danzatrice con le mani sui fianchi di Canova esposta a Palazzo Braschi nel 2019, quasi una reinterpretazione del gabinetto della Venere dei vicini Musei Capitolini.

JAGO. The Exhibition. Immagine dell’allestimento. Venere (2018)


Un piccolo consiglio per la vostra visita: se sentiste la necessità di utilizzare l’ascensore – la mostra di Jago è al secondo piano – la cabina vi porterà direttamente al centro dell’esposizione; abbiate perciò l’accortezza di fare pochi passi indietro e recarvi al punto di partenza del percorso di visita: è quello spazio a cui si accede dallo scalone monumentale e lo riconoscerete per la presenza del logo della mostra, a rilievo sulla parete, per i pannelli esplicativi e per il video introduttivo.


Il tempo di Jago è certamente più rapido di quello di Bill Viola, ma non per questo effimero. La caratteristica predominante nella sua mostra è quella della materia: il marmo, la pietra, i semplici sassi, ma anche la ceramica e i bozzetti, oltre a altre forme di rappresentazione come schizzi, fotografie e video.

La mostra di Bill Viola è invece, per sua natura, immateriale, composta da sole immagini, su schermo o in proiezione, ma il cui movimento è così rallentato da fermar e il tempo: questo porta le sue opere a acquisire la stessa gravità di una scultura o di un dipinto manierista.

Il numero di tappe di cui si compone il percorso di visita delle due mostre è simile – dodici sono le opere di Jago, dieci le stazioni di Bill Viola – diversa è l’interazione con il visitatore: il percorso che si compie con Viola si svolge al buio, nel tempo rallentato e sospeso delle sue video installazioni; con Jago tutto è in piena luce, col visitatore che trova il proprio personale ritmo scegliendo come muoversi nello spazio, avvicinandosi e allontanandosi, non solo davanti ma anche dietro – e intorno – alle sue sculture.


Diverse ma sottilmente in relazione, legate ma non collegate, Bill Viola – Icons of light e Jago – The Exhibition sono due mostre che si arricchiscono l’un l’altra, e andrebbero visitate insieme.

Per farlo avete tempo fino alla fine di giugno (una settimana in più per la sola mostra di Jago); dopo di che le sale di Palazzo Bonaparte torneranno a chiudersi, ma solo per il tempo necessario a allestire la terza e ultima mostra in programma per il 2022: quella che sarà dedicata a Vincent Van Gogh.


  • Bill Viola. Icons of light.
    A cura di Kira Perov.
    Dall’5.3 al 26.06.2022
  • Jago. The Exhibition.
    A cura di Maria Teresa Benedetti.
    Dall’12.3 al 03.07.2022

Palazzo Bonaparte, Piazza Venezia 5, 00186 Roma
Dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19, sabato e domenica fino alle 21.
La biglietteria chiude un’ora prima.

Progetto di allestimento Alessandro Baldoni, Giuseppe Catania e Francesca Romana Mazzoni – BC Progetti
Progetto illuminotecnico Francesco Murano
Progetto grafico e immagine coordinata Angela Scatigna

Fotografie di Paolo Olivi, Pop’s The Matter.
Tutte le opere in mostra © Bill Viola Studio / © JAGO.